Violenza di genere, il problema è il consenso sociale

Uno dei temi principali del percorso di Formazione quadri terzo settore – Fqts riguarda le questioni genere. «Dobbiamo iniziare a problematizzare la questione maschile», spiega Cirus Rinaldi, professore associato di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale dell’Università di Palermo. «Viviamo in contesti che sono etero-cis-patriarcali. La maschilità si produce e si alimenta attraverso specifiche condotte violente tanto da diventare “normali”»

Articolo di Anna Spena

Formazione Quadri Terzo Settore – Fqts è un progetto di formazione per i dirigenti delle organizzazioni del Terzo settore meridionali promosso da Forum Terzo Settore e Centro servizi per il volontariato, realizzato con il sostegno della Fondazione Con il Sud. Uno dei filoni principali dell’iniziativa di Fqts si chiama “Questioni di genere – un percorso verso l’uguaglianza”. Le diseguaglianze di genere sono riconosciute come uno dei problemi strutturali che rallenta, quando non minaccia, lo sviluppo del nostro Paese. Il gender equality, infatti, è individuato come una delle priorità trasversali alle azioni previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. I divari tra uomini e donne rimangono ancora significativi e non esenti da involuzioni. In particolare, le donne continuano a essere in netto vantaggio rispetto agli uomini in termini di istruzione e qualità delle carriere formative e questo rende il peso delle discriminazioni ancora più grave. «L’obiettivo di questo percorso formativo», spiegano gli organizzatori, è coinvolgere sia uomini che donne in una riflessione partecipata sugli squilibri e discriminazioni di genere, nonché sulle strategie e gli strumenti da attivare nelle organizzazioni, in particolare nel Terzo Settore, ma non solo, nelle comunità e nei territori». Il Terzo Settore siciliano si è approcciato al tema con il supporto di Cirus Rinaldi, professore associato di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale presso il Dipartimento Cultura e Società dell’Università degli Studi di Palermo, dove coordina il Laboratorio di ricerca interdisciplinare su Corpi, Diritti Conflitti. «I temi di genere», spiega Rinaldi, «sono sicuramente stati appannaggio delle realtà accademiche del Nord Italia rispetto al Sud, almeno nel periodo della loro fondazione nel nostro Paese».

Professore il fenomeno delle disuguaglianze di genere è più attuale che mai. Ma in Italia siamo ancora molto indietro sulla questione. Che lavoro ha iniziato con le realtà del Terzo Settore, da che punto è partito?

Dal tema delle maschilità. È un approccio abbastanza inedito, nuovo, che capovolge un po’ di aspettative rispetto agli studi di genere. Quindi siamo partiti riflettendo sulle questioni che hanno a che fare con le diseguaglianze sociali, in merito ai generi, concentrandoci sulla problematizzazione del genere maschile.

In che senso?

Mi spiego meglio. Solitamente quando parliamo di politiche di genere non facciamo altro che marcare e rendere evidente una differenza, un’unica differenza che è quella femminile, perché la dimensione generale e astratta rimane quella maschile. Una dimensione mai “detta”, mai “resa problematica”. Quindi quando parliamo di genere intendendo sempre la dimensione del femminile, non arriviamo mai a problematizzare il maschile. In qualche modo il femminile diventa depositario del titolo “genere”. Il maschile viene sempre dato per scontato, anche da un punto di vista proprio dell’atteggiamento cognitivo nei confronti delle questioni.

Quindi come “problematizzare” un maschile che viene dato per scontato?

Intanto partiamo da una consapevolezza: il maschile, al pari del femminile, è uno dei generi. Non dobbiamo più dare per scontato che il maschile sia un osservatore generale, astratto, universale che ci parla. Deve essere anche a sua volta detto e parlato. Quindi la prima cosa da fare per esplicitarlo, è dire che esiste, ammettere che diventa una delle parzialità possibili attraverso cui osservare il mondo.

Da che domanda partiamo?

“Come si diventa maschi?”. Allontaniamoci da ogni posizione naturalista, quella che dice “i maschi sono maschi e le femmine sono femmine”. Proviamo a capire il maschile e il femminile si producono a partire dai nostri contesti sociali.

Come si formano?

Oggi si registrano prevalentemente due modi per costruirsi socialmente: i maschi vengono visti sempre come proattivi e le femmine sempre come adattive. Questi costrutti li impariamo durante le forme di socializzazione. Di fatto siamo davanti a due dispositivi che utilizziamo tutti e tutte, e tutti e tutte utilizzano nei nostri confronti, per regolare il nostro corpo e il corpo degli altri. Impariamo in sostanza a definire dei confini. E monitoriamo, controlliamo continuamente questi confini e ne sanzioniamo gli attraversamenti.

Quindi i maschi cosa fanno per identificarsi?

Il femminile è identificato con differenze biologiche – le mestruazioni, la gravidanza – quindi alle donne è dato un posto ben specifico in un ordine che rimane naturale. Il maschile invece si identifica attraverso la negazione, cioè impara a dire “io non sono una femmina”. Allora si costruisce continuamente una maschilità, sociale, che accumula capitale maschile. Viviamo in contesti che sono etero-cis-patriarcali, e in questi contesti impariamo il mandato dell’anti femminilità. In quanto maschi, non dobbiamo apparire mai emotivi, emozionali e impariamo ad essere sessuali, impariamo il dominio in pubblico e in privato, dobbiamo essere indipendenti, dominanti, aggressivi. Dobbiamo essere stoici. Quindi dobbiamo controllare la nostra vulnerabilità, dobbiamo assumere una propensione al rischio, al successo. Queste sono le indicazioni della società per diventare “maschi normali”. Qualunque maschio, di qualunque classe sociale, di qualunque raggruppamento e quindi di qualunque forma di razzializzazione, impara a confrontarsi con l’appartenenza di genere.

Come contestualizziamo l’aspetto della violenza?

L’atteggiamento violento, il singolo stupro, la discriminazione nei confronti di una collega, la violenza domestica, fino a tutte quelle forme di violenza macro-sociali, per esempio di allontanamento delle donne dalle figure apicali nelle grandi organizzazioni: appartenere “ai maschi” significa imparare delle norme regolate da rapporti di violenza. La violenza è uno strumento che i maschi utilizzano, la violenza può essere diretta o indiretta, esplicita o implicita, simbolica. Si usa la violenza per produrre il genere. Quindi la maschilità si produce attraverso specifiche condotte che assumono anche il valore di violenza normalizzata perché in qualche modo, utilizzando degli strumenti violenti e discriminatori, impariamo a determinare quali maschilità e quali femminilità siano quelle legittime e anche a individuare i confini esistenti tra le identità di genere.

La violenza è pervasiva

Questo tipo di violenza ha un consenso sociale. Cioè è talmente pervasiva, talmente legittimata che spesso viene data per scontata, e quindi non viene tematizzata. C’è una “banalità del genere”, un po’ riprendendo Hannah Arendt e la sua banalità del male.

Che significa banalità del genere?

Il genere è talmente banale che anche quando assistiamo a delle condotte violente commesse da maschi non siamo mai pronti a dire sono stati dei “maschi”, ma diciamo: “erano dei giovanissimi”, “sono stati dei migranti”, “erano dei neri”, “erano dei poveri”, “erano di un altro gruppo culturale”. Non identifichiamo mai l’azione violenta come un’azione fatta, prima di tutto, dai maschi. Anzi quando vediamo azioni particolarmente brutali siamo lì pronti a creare dei mostri, ma nel momento in cui creiamo dei mostri stiamo anche creando un effetto paradossale perché marginalizziamo il fenomeno, lo rendiamo qualcosa di “mostruoso” o “eccezionale”. Individuando il mostro, infatti, non attribuiamo la responsabilità alla categoria generale – i maschi, la maschilità, come si diventa maschi – e sottoponiamo a “trattamento” il nostro mostro. Quindi cosa stiamo facendo in questo caso? Un problema pubblico viene trasformato in un problema privato e trattato con sanzioni e carcere. Di fatto non facciamo altro che depoliticizzare la questione e delegare agli organi di controllo.

In che termini?

Non riflettiamo mai sulla costruzione collettiva della maschilità. Se il problema è “come si diventa maschi”, allora la questione non può che essere anche pubblica. Il consenso sociale giustifica e sostiene la violenza, e se noi non facciamo nulla di collettivo e politico continuiamo a riprodurre un modello sbagliato.

Sembra che ultimamente siamo circondati dalla violenza

Siamo nel pieno di una perdita di status, nel pieno di una crisi della maschilità. E quindi la violenza diventa una volta di più l’espressione del privilegiato che sta perdendo potere e che cerca di rivendicarlo. Perché insomma quale privilegiato vorrebbe sentirsi dire: “Scendi dal trono, deponi lo scettro”. Viviamo negli anni della retorica della crisi del maschio e dell’ampliamento del potere femminile.

Che significa questa retorica?

Facciamoci caso. I partiti parlano di invasione dei migranti, di sostituzione etnica e culturale, di femministe, di minoranze lgbtq. E questi sono solo degli esempi. Questo è un modo per individuare soggetti, gruppi di persone, che mettono a rischio il privilegio maschile (di classe, “bianco”, etc.) chiaramente per distogliere lo sguardo dalle disuguaglianze strutturali. Un vero risentimento che si registra in alcune maschilità populiste e paranoidi. Ma facciamo un passo in più.

Prego

Questi atteggiamenti non fanno altro che ristabilire e controllare i confini interni ed esterni, e questo vale anche per i confini di genere. Quelli de “i maschi sono maschi e le femmine sono femmine”, lo stesso succede con le forme di famiglia tradizionale e tutte le altre, tra “noi” e “loro”, etc..

Da dove deve partire il lavoro di educazione?

Dalle scuole dell’infanzia certamente.

E qual è allora il ruolo del Terzo Settore?

Fondamentale. Il Terzo Settore è un sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche, al mercato e interagisce con queste dimensioni nell’interesse della comunità. Se un cambiamento può esistere passerà sicuramente per il mondo del privato sociale, per la sua sensibilità, che ha il compito di fare da cassa di risonanza. Io spero che il Terzo Settore possa portare a un’altra riflessione, a una profonda riflessività che aiuti anche a tradire l’eredità dei padri.

“Tradire l’eredità dei padri”?

Non significa uccidere il maschio. Significa capire che i nostri padri hanno tradito loro stessi insieme con noi nel momento in cui hanno costruito dei percorsi legati a questioni naturali, immutabili o trascendentali. E quando parlo di “tradimento dell’ordine dei padri” sto dicendo fondamentalmente che non basta avere l’ufficio pari opportunità o la sezione pari opportunità nelle associazioni di settore. Ma è necessario ripensarsi completamente. Problematizzare il mondo in cui diventiamo maschi “normali”.

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