IL RUOLO DEL TERZO SETTORE NEL FUTURO DELLE COMUNITÀ

 Il ruolo del terzo settore nel futuro delle comunità

di Andrea Volterrani, ricercatore e docente all’Università di Roma Tor Vergata.

Le comunità sono fondamentali per il terzo settore e, dopo la pandemia da Covid 19, lo ono ancora di più. Recentemente sempre più spesso leggiamo delle comunità come risorsa e come impresa tanto che qualcuno si spinge oltre, riferendosi a un futuro dove si potrà vivere il capitalismo comunitario. Una visione esclusivamente economicistica delle comunità che, invece, sono innanzitutto luoghi dove le persone costruiscono la loro vita quotidiana, le loro relazioni sociali ed affettive, la loro identità. Questi tre aspetti sono stati le radici dalle quali molte organizzazioni di terzo settore sono nate percependo e condividendo con le persone prima e, poi, costruendo azioni, progetti e servizi per contribuire a costruire comunità differenti. Ma oggi la situazione è, per molti aspetti, cambiata.

Abbiamo vissuto un processo di “istituzionalizzazione” del terzo settore che ha prodotto un lento ma inesorabile allontanamento dalla comunità territoriale.

Alcune realtà del terzo settore, anche le più radicate, hanno a poco a poco smesso di essere parte integrante delle comunità di riferimento, divenendo sempre più soggetto estraneo, fornitore di servizi. Le comunità quindi, dal punto di vista del terzo settore, si sono ridotte a destinatarie di interventi, più o meno strutturati o efficaci, ma comunque sempre in un rapporto asimmetrico tra fornitore e fruitore.

Ciò evidentemente ha accentuato un processo di scollamento che nel tempo ha portato terzo settore e comunità a collocarsi su livelli differenti, rendendo spesso sterile e asettica l’azione sul territorio.

Occorre quindi ripartire dalla comunità, ma per farlo è necessario un cambio di paradigma culturale che consenta di rimettere al centro le persone, e non l’organizzazione terzo settore, i beni relazionali e non i servizi o le attività.

 

Per un nuovo paradigma culturale per lo sviluppo comune delle comunità

Il primo pilastro del nuovo paradigma è il riconoscimento delle nuove caratteristiche delle comunità. La moltiplicazione delle comunità e il loro essere sempre più fluide con un elevato grado di complessità e differenziazione è una evidenza empirica della quale tenere conto e, soprattutto, necessità di ulteriori approfondimenti. Non è facile individuare e delimitare il lavoro per costruire sviluppo sociale in molte delle comunità contemporanee perché non esistono confini certi. Quindi è importante adottare un approccio olistico, includente e aperto all’inaspettato che abbia come obiettivi l’incremento del capitale sociale (e quindi della fiducia e delle relazioni) e della coesione sociale (e quindi della densità delle relazioni) disponibili a chi abita le comunità.

Il secondo pilastro è l’adozione di un approccio che ponga al centro le persone e le relazioni. In sintesi, è fondamentale fare riferimento a: a) protagonismo degli abitanti delle comunità in ogni momento e in ogni contesto. La domanda da porsi sempre è: chi lo sta portando avanti? Di chi è stata l’idea? Se la risposta non è le persone e/o la comunità, allora stiamo seguendo un’altra tipologia di approccio che prevede una imposizione delle idee dall’alto e, spesso, dall’esterno; b) la facilitazione della partecipazione reale e non formale attraverso un supporto di animazione non invasiva che si affianca e non prevarica le persone e la comunità; c) un nuovo ruolo degli Ets che si muovono all’interno della comunità e con la comunità, abitando e vivendo i luoghi del quotidiano delle persone per costruire insieme il futuro della comunità; d) il racconto continuo, coinvolgente e affascinante di quali sono, passo dopo passo, gli sviluppi della comunità; e) il coinvolgimento attivo delle istituzioni in un processo reale di co-programmazione prima e di co-progettazione poi.

Il terzo pilastro è la crescita della capacità collettiva di lavorare sulla comunità immaginata attuale e sull’idea di futuro della comunità. Un lavoro sulle percezioni che ha la necessità di scavare nelle profondità anche poco trasparenti dell’immaginario individuale e collettivo delle persone e della comunità e sull’immaginazione civica. Accanto a questo è ormai necessario lavorare per far crescere anche nelle comunità e negli Ets la consapevolezza del mondo digitale. Parlare di reale contrapposto al digitale non ha più senso, tanto meno per le comunità. È importante, invece, spostarsi senza soluzione di continuità da un piano all’altro per far incontrare le persone, collegare ambiti e situazioni differenti, ricostruire comunità capaci di crescere su entrambi i versanti anche attraverso le cosiddette piattaforme digitali di prossimità.

Quinto pilastro è non dimenticare che al centro dobbiamo sempre mantenere le relazioni e i legami sociali insieme alle persone che le interpretano e le esprimono. Senza questo non esiste nessun processo di sviluppo di comunità, ma, invece, una ingegnerizzazione sociale della quale abbiamo già visto i danni nel passato.

Infine, è bene ricordare che siamo sempre all’interno di processi sociali e non di obiettivi/progetti dove non possiamo/vogliamo/dobbiamo sapere gli esiti finali e le tempistiche. Processi che, come suggeriva Freire, partono dal basso per creare consapevolezza e coscientizzazione nelle comunità che poi, se vorranno, potranno prendere il proprio destino nelle loro mani.

Non esiste una ricetta precostituita per poter seguire un approccio di questo tipo, ma, piuttosto, uno sguardo lungo sulle persone e sulle comunità che tenga conto della complessità, possegga capacità e competenze molto ampie sui processi partecipativi e la loro facilitazione, sulla costruzione e il mantenimento delle relazioni e della fiducia, sull’affiancamento (e non la sostituzione) alle persone, sulla comunicazione on e off line e sullo storytelling, sul funzionamento delle istituzioni e sui processi decisionali, sulle azioni di rete e abbia, infine, la prospettiva fondamentale di stare in secondo piano rispetto alle persone e alle comunità.

Una visione di insieme che si pone come processo circolare per la costruzione di capitale sociale ed empowerment, elementi fondati per la definizione di un modello di sviluppo realmente condiviso dalla comunità.

 

Quale ruolo degli Ets e degli attori sociali

In tale ottica è possibile immaginare l’effettivo coinvolgimento di tutti gli attori sociali presenti sul territorio, ivi compresi gli attori istituzionali, anch’essi parte integrante della comunità, e non solo elementi di governo o peggio severi burocrati controllori. Utilizzando al meglio gli strumenti di cui all’art.55 del CTS, il terzo settore potrà fungere da mediatore, da anello di congiunzione, da ponte di collegamento tra le istituzioni e gli stessi cittadini.

Gli Ets, infatti, dispongono di una specificità che è unica rispetto tutti gli altri attori sociali. Pur non essendo pubblica amministrazione, svolgono comunque una funzione pubblica nell’interesse generale, e pur non essendo cittadini o aziende a fini di lucro, si muovono comunque nel campo della soggettività privatistica. Tali caratteristiche fanno del mondo del terzo settore un soggetto unico, che ha in sé le potenzialità per divenire l’humus su cui far crescere processi virtuosi di cambiamento e innovazione sociale.

A tal fine è necessario uscire dai consueti schemi che vedono le organizzazioni del terzo settore schiacciate sulla dimensione del fare, che troppo spesso ha determinato processi tesi alla mera auto-riproduzione delle attività storicamente svolte, accentuando invece, e possibilmente implementando, quella dimensione “politica” che peraltro è propria delle origini dell’associazionismo, soprattutto del volontariato.

È in tale dimensione, infatti, che si sviluppa la visione d’insieme comunitaria e che si restituisce il senso all’agire degli ETS.

Ripartire dalle comunità, quindi, non significa pensarle come nuova possibilità di attività, ma quali reali protagoniste del proprio processo di sviluppo, all’interno del quale gli ETS sono mezzi al fine, e non viceversa. Non è sufficiente utilizzare il termine “comunità” per operare realmente all’interno di un approccio comunitario. È invece necessario credere fortemente nella forza propulsiva e innovatrice del capitale sociale e nella capacità moltiplicativa di risorse che i processi partecipativi, reali e non meramente figurati, possono dispiegare.

Le interazioni tra gli attori sociali di una comunità, il reticolo di solidarietà e reciprocità che si forma tra cittadini, corpi intermedi e istituzioni, è motore di processi evolutivi importanti e duraturi.

Investire nelle relazioni comunitarie è oggi un percorso rivoluzionario, prima di tutto culturale, inteso come cambiamento radicale del modo di intendere e pensare il territorio. Un approccio in netta controtendenza con le spinte individualistiche e auto-riproduttive di un modello di società introversa, chiusa su posizioni difensive determinate da una paura indotta verso la diversità e quindi genericamente verso l’altro, inteso in senso lato come qualsiasi cosa al di fuori della mia persona, della mia famiglia, della mia cerchia ristretta, e purtroppo, anche della mia organizzazione, partito politico, religione.

I modelli di sviluppo territoriale che partono da tali presupposti, senza un preventivo investimento sulle relazioni comunitarie, per quanto “tecnicamente” ineccepibili, rimangono sempre il frutto di mediazioni al ribasso tra posizioni pregiudiziali e inconciliabili, risolvendosi spesso in processi parziali e incompleti, se non in veri e propri fallimenti.

Invece è proprio dal bisogno primario e innato di relazioni che occorre partire per ripensare filosofia e metodo dell’agire comunitario.

In questo modo una diversa idea di sviluppo forse potrà prendere davvero corpo e sostanza nelle nostre comunità.

 

Per approfondire

Freire P. (2018), Pedagogia degli oppressi, EGA, Torino

Squillaci L., Volterrani A. (2021), Lo sviluppo sociale delle comunità. Come il terzo settore può rendere protagoniste, partecipative e coese le comunità territoriali, Fausto Lupetti Editore, Bologna

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