PERCHÉ OGGI SI CO-PROGETTA MOLTO PIÙ CHE IN PASSATO

FQTS SOTTO L’OMBRELLONE

Inauguriamo oggi la nuova rubrica di FQTS con articoli, approfondimenti, spunti di idee e riflessioni dai nostri docenti, nell’ambito del percorso formativo portato avanti con FQTS.

Il primo contributo ci arriva da Gianfranco Marocchi, coordinatore della Linea Formativa 1 dell’Asse 1 di FQTS: “Il futuro delle comunità: il ruolo degli Ets nella co-programmazione” e già diffuso sul sito Impresa Sociale.

Si tratta di una riflessione su un tema caldo in questi mesi e oggetto di approfondimento della nostra formazione, la co-programmazione e la co-progettazione. Nuove modalità di relazione tra enti pubblici e Terzo settore ispirate al principio della collaborazione anziché della competizione. L’ente del Terzo settore, per il suo svolgere ‘attività di interesse generale’ si trova ad avere stesse finalità dell’ente pubblico. Questo implica forme di relazione tra i due soggetti che non presuppongono interessi diversi e contrapposti, ma il perseguimento di finalità condivise.

 

PERCHÉ OGGI SI CO-PROGETTA MOLTO PIÙ CHE IN PASSATO

La coprogrammazione e la coprogettazione stanno diventando prassi diffusa. Nel corso degli ultimi due anni si stanno accumulando materiali sempre più consistenti sul tema della relazione tra enti pubblici e terzo settore e in specifico sul tentativo di dare forma a tale collaborazione sulla base di un principio collaborativo anziché sulla competizione. Tali materiali (si pensi agli atti di due convegni organizzati da Welforum.it nel maggio 2018 a Milano e nel dicembre 2018 a Torino; alle sezioni monografiche della rivista Welfare Oggi 2/2018 e 6/2019 dedicate alla coprogettazione, solo per fare alcuni esempi) sono riconducibili a diversi filoni: riflessioni tese a individuare fondamenta giuridiche, a partire da quelle costituzionali, che legittimano – o, più correttamente, consigliano – l’adozione di modalità di amministrazione ispirate al principio di collaborazione; lavori centrati sulle implicazioni organizzative delle relazioni collaborative, con la conseguente ridefinizione di ruoli sia dell’ente pubblico che del terzo settore che ne conseguono; e, ancora, studi di caso che approfondiscono concreti casi di collaborazione, consistenti prevalentemente (ma non solo) in forme di coprogettazione.

Perché questo avviene?

In premessa va rimarcato un orientamento sempre più consolidato – come scriveva Felice Scalvini su Welfare Oggi 2/2018 a proposito dell’art. 55 del Codice del Terzo settore (Scalvini, 2018), un frutto del principio costituzionale di sussidiarietà – nel considerare l’amministrazione della cosa pubblica come esercizio teso a suscitare, favorire, sostenere azioni di soggetti della comunità locale. Questo va al di là del tema specifico delle coprogettazioni tra Enti pubblici e Terzo Settore, includendo una varietà di forme ed esperienze: i più di 200 comuni che hanno approvato dei Regolamenti per l’amministrazione condivisa lanciati da Labsus e che coinvolgono in centinaia di “patti” le amministrazioni locali, cittadini, associazioni, cooperative, imprese; i tanti casi di progettazione sociale condivisa, dove una pluralità di soggetti locali, formali e informali, sono coinvolti in una scelta ad esempio relativa ad un bene comune (un ex edificio industriale, uno spazio pubblico, ecc.) affinché l’azione amministrativa emerga da un lavoro partecipato, in cui idee, proposte, interessi sono oggetto di confronto (e, dove necessario, di composizione) e quindi di impegno comune per dare seguito a quanto insieme immaginato. Se è chiaro come l’ispirazione di questa modalità di gestione della cosa pubblica trovi origine dall’articolo 118, comma 4 della Costituzione riformata nel 2001, va ben considerato come anche questo autorevolissimo riferimento non nasca dal nulla, ma accolga quanto la realtà sociale e il legislatore avevano delineato sin da inizio anni Novanta con l’attribuzione a cooperazione sociale e volontariato di chiari compiti di interesse generale. Insomma, un’onda lunga dove pratica sociale e innovazione giuridica si rincorrono e si rafforzano vicendevolmente. Anche se forme collaborative come i patti o i processi partecipati differiscono per alcuni versi da quelle oggetto di maggiore interesse in questo editoriale, esse evidenziano come la coprogettazione nasca nell’ambito di una diffusa consapevolezza che la società civile rappresenta una fondamentale risorsa per il bene comune e che è responsabilità delle istituzioni valorizzarla appieno.

Vi è poi un secondo alveo culturale dal quale le iniziative collaborative nascono. È un paradigma – raccolto, nell’ambito del welfare, dalla legge 328/2000 che fa riferimento al “sistema integrato di interventi e servizi”, ma nei fatti ad essa preesistente – che attribuisce all’integrazione tra risorse – come si scrive nei progetti, al “fare rete”, al “fare sistema” o espressioni equivalenti – una valenza positiva e anzi irrinunciabile alla buona riuscita degli interventi sociali. Ed è difficile immaginare una piena integrazione laddove i soggetti siano impegnati in relazioni di contro-interesse (pubblico acquirente di prestazioni versus Terzo settore fornitore) o di concorrenza (i soggetti di Terzo settore tra loro); si può forse auspicare che vi siano elementi deontologici o etici o di altra natura che consentono – per il bene superiore dei destinatari – anche a soggetti potenzialmente confliggenti di riuscire comunque a collaborare, ma è evidente che, qualora si apra una prospettiva autenticamente collaborativa sin dalle sue fondamenta, essa può facilitare non poco l’effettiva – e auspicata – integrazione.

Si potrebbe obiettare che richiamare la cultura dell’integrazione in rete degli interventi sia poco pregnante, perché il fatto di risalire, già in una declinazione giuridica compiuta, a più di vent’anni fa, non spiega come mai solo in tempi recenti si siano diffuse forme di amministrazione collaborativa; per comprendere meglio quando avvenuto va pertanto introdotto un terzo elemento, relativo alle strategie di intervento in ambito sociale (in senso esteso: certamente nel welfare locale, ma anche in vari ambiti limitrofi): si avverte sempre di più l’insufficienza di strategie di risposta ai bisogni di tipo meramente prestazionale – schiacciate tra costi crescenti, risorse stazionarie e bisogni sempre più ampi e diversificati e si percepisce invece l’esigenza di interventi altamente personalizzati, improntati ad una visione unitaria della persona, miranti alla sua autonomia, ecc. tutte caratteristiche che richiedono di andare oltre al livello prestazionale e quindi di avventurarsi in un campo in cui solo un concorso ampio di risorse – professionali e non, formali e non – tra loro integrate può dare risposta. Nella pratica ciò significa che ad uno stesso bisogno (ad esempio la presenza di anziani soli con limitata autosufficienza) sino a pochi anni fa inquadrato in una strategia di servizio basata su prestazioni di assistenza domiciliare, viene ora sempre più spesso data risposta con modalità diverse, che integrano servizi professionali, attivazione di vicinato, assistenza domiciliare, telesoccorso, servizi leggeri di accompagnamento e altro. E in questo caso è evidente che una strategia fondata sulla assegnazione su base di competizione di singoli servizi o interventi segna il passo rispetto ad altre che promuovono costitutivamente la collaborazione.

Quarto, seppure siano voci ancora sparute nell’ambito di una ancor prevalente idolatria della concorrenza, vi è stato chi (Borzaga 2018, Borzaga, 2019) ha evidenziato da un punto di vista economico le controindicazioni dell’applicazione (indiscriminata) di meccanismi di mercato ad ambiti pervasi da alta asimmetria informativa ed elevate esternalità positive; ma queste argomentazioni altro non fanno che confermare storie ben note a chi opera nel settore, che ben conosce la quota di affidamenti che generano controindicazioni per i destinatari (che ricevono un servizio inferiore a quello contrattato), per i lavoratori (sottopagati), per le imprese corrette e di qualità (obbligate a competere con imprese spurie che fanno uso massiccio di dumping contrattuale), o che generano contenziosi costosi dai quali derivano spesso rallentamenti nell’offerta dei servizi ai cittadini; insomma, quando tutto ciò sia considerato (nonché siano computati i costi burocratici per tentare di ovviare le conseguenze dell’asimmetria informativa con relazioni, fogli presenze, rendicontazioni snervanti e di fatto di dubbia utilità), alla fine i costi effettivi di servizi diventano decisamente superiori di quelli dichiararti e soprattutto del beneficio assicurato ai destinatari. Gli amministratori locali che hanno adottato procedimenti collaborativi evidenziano invece come – certo a prezzo di un lavoro faticoso sui tavoli, ma dove la fatica è mirata a confrontare e integrare idee, sensibilità e proposte – alla fine le risorse riversate sulla comunità siano significativamente maggiori di quelle investite dalla pubblica amministrazione e il prodotto sociale sia, a parità di costo, incomparabilmente maggiore grazie ai processi di attivazione comunitaria e alla mobilitazione collettiva per la ricerca di fondi ulteriori a quelli dell’ente istituzionalmente responsabile dell’intervento.

E poi, non ultime, le evoluzioni normative: al di là di alcuni passaggi faticosi come il discutibile e contestato anche da un punto di vista strettamente giuridico parere del Consiglio di Stato dell’agosto 2018 (Club degli amici dell’articolo 55, 2019; Marocchi, 2018a; Marocchi, 20018b; De Ambrogio, 2018), negli ultimi tre anni si è assistito 1) a ripetute legittimazioni (anche da parte dell’ANAC) delle forme “storiche” della coprogettazione previste dalla 328/2000 e 2) alla definizione di nuove e più pervasive forme collaborative come quelle previste dall’art. 55 del Codice del Terzo settore. Non paia questa una collocazione residuale, nell’economia del discorso, di una delle norme più dirompenti e innovative nella recente storia giuridica del nostro Paese: l’impatto dell’art. 55 è stato anzi, con ogni probabilità, decisivo a livello culturale nel catalizzare un interesse crescente che, per tutti i motivi sopra richiamati, si era andato condensando intorno alle forme collaborative. Con l’esito che si può constatare – una virata ampia e diffusa di enti locali verso strumenti collaborativi per rapportarsi con il Terzo settore – frutto delle ragioni si ritrovano nel complesso degli elementi qui descritti.

Fatte queste premesse risulterà probabilmente più facile inquadrare i fatti: metropoli capoluogo – Milano, Bologna, Torino, Genova – che avviano coprogettazioni con importi economici significativi (per fare un esempio, il Piano inclusione della Città di Torino ha un budget di partenza di 4,5 milioni di euro, destinato ad aumentare, ed integra più di 160 progetti di oltre 180 enti) e sperimentazioni di coprogettazioni in piccoli centri, compresi territori montani ad alta dispersione territoriale; coprogettazioni storiche come quella di Lecco, attiva dal 2006, che sperimentano forme innovative e di frontiera (una impresa sociale compartecipata da Comuni e Terzo settore che assume la gestione complessiva del welfare cittadino) e comuni che non avevano mai coprogettato che iniziano a farlo; coprogettazioni in senso stretto e città che elaborano strumenti diversi (es. l’accreditamento sugli interventi domiciliari per anziani a Brescia), ma ugualmente ispirati ad una logica collaborativa; Regioni che adottano atti impegnativi come l’inserimento di un riferimento all’art. 55 nella Legge regionale della Toscana sulla cooperazione sociale (L.R. 58/2018, art. 14) o la previsione della coprogettazione da parte della Regione Piemonte come metodo per la redazione e la realizzazione di We.Care, il maggiore programma regionale di innovazione del welfare dell’ultimo decennio. E ancora, un ANCI, quello dell’Emilia Romagna, che dà vita ad un complesso lavoro per definire regolamenti tipo sulle relazioni collaborative tra Enti pubblici e Terzo settore e altri strumenti per l’attuazione di coprogrammazione e coprogettazione.

Sia notato per inciso: la gran parte dei questi accadimenti sono posteriori al già citato Parere del Consiglio di Stato; così come posteriore è una sentenza di un tribunale amministrativo regionale – il TAR Campania, unico, per quanto noto a chi scrive, ad essersi espresso in modo diretto circa una procedura di coprogettazione – che, al di là del giudizio di merito sul caso in discussione, dà per acquista la legittimità dello strumento.

In sintesi, se oggi gli enti locali sono diventati protagonisti della coprogettazione è perché ciò risponde in modo autentico ad una esigenza fondamentale per chi vuole dare risposte adeguate ai cittadini, risposte che non possono essere garantite dagli strumenti ispirati alla competizione. Quelli che ancora non l’hanno fatto, generalmente sentono l’esigenza di farlo, ma sono stati trattenuti dalla convinzione diffusa che l’appalto costituisca l’unica opzione legittima (magari, visto che l’esigenza collaborativa comunque esiste, tentando di “addomesticare” le procedure competitive piuttosto che misurarsi con procedure collaborative trasparenti). Ma la sostanza è che nel momento in cui la porta viene aperta, in cui le resistenze aprioristiche vengono superate, la coprogettazione diventa una soluzione attentamente considerata e utilizzata in modo crescente nelle sempre più frequenti situazioni in cui un ente coglie l’importanza di rispondere ad un bisogno sociale non in modo “prestazionale”, ma attraverso meccanismi di attivazione diffusa. Ciò non significa ovviamente che tutte le relazioni tra Enti pubblici e Terzo settore siano appropriatamente gestibili in modo collaborativo – alcune riguardano nella sostanza prestazioni di servizi e come tali vanno trattate: con affidamenti tramite appalto – ma che lo spazio in cui la risposta ad un bisogno viene concettualizzata in forme collaborative sta aumentando in modo significativo, tale da non essere più residuale nell’assetto del welfare locale e di altre politiche connesse (es. politiche giovanili, politiche culturali).

Questa genesi dei percorsi di coprogettazione in qualche modo “spiazza” talune perplessità sull’utilizzo della coprogettazione, legate al supposto favor nei confronti dei soggetti di Terzo settore che esse implicherebbero. Nella maggior parte, i percorsi qui richiamati non nascono da una rivendicazione di ruolo del Terzo settore e da sue azioni di lobbying tese a non essere considerato solo un fornitore ma un partner paritario, ma dalla volontà autonoma di amministrazioni locali di perseguire al meglio le proprie finalità di servizio alla cittadinanza. E il terzo settore – al pari delle pubbliche amministrazioni – è tra i soggetti chiamati (talvolta entusiasti, talvolta riluttanti) ad un cambiamento radicale del proprio ruolo e delle proprie modalità operative, a infrangere dunque non senza fatica un equilibrio comunque da tempo definito e sul quale molte organizzazioni si sono strutturate; e a investire risorse non marginali in vista di ricompense per lo più non economiche, ma relative al migliore raggiungimento di obiettivi sociali. Proprio perché questa è la genesi dei percorsi, questa nuova generazione di coprogettazioni non è incline a compromessi sul fronte della trasparenza delle procedure amministrative, che sono sempre di evidenza pubblica, con criteri di selettività trasparenti e con notevole accuratezza formale.

A maggior riprova di ciò: non solo gli enti locali, ma anche le fondazioni hanno iniziato un percorso che le sta portando a inserire con sempre maggiore pregnanza nelle proprie linee operative la previsione dei forme collaborative: è questo il caso, per fare solo alcuni esempi, di Cariplo con il bando Welfare in Azione, di Compagnia di San Paolo che sta sostenendo il già citato processo di coprogettazione della Città di Torino, di Fondazione CRC e di molte altre. Insomma, chi – ente locale o fondazione – si trova a gestire risorse da finalizzare al benessere della comunità, sente l’esigenza di dotarsi in un modo o nell’altro di strumenti collaborativi; e, sempre per quanto riguarda il mondo delle fondazioni, accompagna questa pratica sociale con riflessioni che minano in profondità l’assolutezza degli strumenti competitivi (Carazzone, 2018). Quindi, in conclusione, gli auspici per le politiche.

In questi mesi ANAC sta lavorando a nuove linee guida, che dovranno sostituire quelle della Deliberazione 32/2016, redatte prima del Codice del Terzo settore (e del Codice degli appalti). Non è casuale – ma anzi è profondamente connesso alle circostanze qui illustrate – che nelle bozze, sia quella ufficiale sottoposta a consultazione, sia quelle successive circolate in modo informale, il tema della coprogettazione, nel 2016 ridotto ad uno scarno paragrafo, sia tra quelli più rilevanti. E contemporaneamente il tema è all’ordine del giorno nella fase di elaborazione di leggi e deliberazioni Regionali e di regolamenti comunali. Insomma, a livelli diversi, si è in una fase in cui si assisterà ad una produzione normativa – comprendente la soft law e atti di enti territoriali – molto ampia.

Nel mettere mano a questo tema è doveroso avere ben presente il contesto qui delineato: la diffusione di forme collaborative – realizzate secondo piena trasparenza, evidenza pubblica, parità di trattamento dei diversi soggetti potenzialmente interessati, chiarezza dei criteri che guidano il procedimento, ecc. – è un’esigenza sociale pressante, che nulla a che vedere con interessi di specifici settori o soggetti, ma che realizza in modo pieno l’interesse pubblico. Ed è per questo che chi ha, a diversi livelli, una responsabilità normativa è chiamato a interpretare tale esigenza, non certo a limitarla o inibirla a vantaggio di strumenti basati sui principi di competizione da cui, sempre per esclusivo interesse pubblico, si è scelto di allontanarsi. I territori vanno ascoltati. Gli amministratori locali vanno ascoltati. Gli operatori che hanno concretamente provato a operare in questo modo e che ne stanno documentando i vantaggi vanno ascoltati. E questo non può che avere un esito: in primo luogo, legittimare e riaffermare tutto ciò che la normativa vigente, dal d.p.c.m. del 30/3/2001 applicativo della 328/2000 all’art. 55 del d.lgs. 117/2017, prevedono, senza che qualcuno o qualche istituzione diversa da Parlamento e Governo si assuma il ruolo improprio di limitare o sterilizzare i passi avanti già acquisiti dalla normativa; e, secondariamente e in subordine, laddove dovessero sorgere perplessità applicative di tali strumenti (che personalmente ci sfuggono) agire con correttezza rimandando alla politica le questioni aperte, piuttosto che, come in modo assai discutibili aveva provato a fare il Consiglio di Stato nel 2018, imponendosi al di sopra di essa.

 

Bibliografia

Borzaga C. (2018), “Fin dove si può spingere la concorrenza senza causare danni invece che vantaggi?”, Welfare Oggi, 2/2018, pp. 14-18.

Borzaga C. (2019), “L’art.55: come liberare il Terzo settore e i servizi sociali dalla schiavitù della concorrenza”, Welforum.it, 23 settembre.

Carazzone C. (2018), “Due miti da sfatare per evitare l’agonia per progetti del terzo settore”, Il Giornale delle Fondazioni, 22 marzo.

Club dell’articolo 55 (2019), “Codice del Terzo settore, rimeditare le posizioni del Consiglio di Stato”, Welforum.it, 9 febbraio.

De Ambrogio U. (2018), “Coprogettazione: ed ora?”, Welforum.it, 6 settembre.

Marocchi G. (2018a), “Coprogrammazione, coprogettazione e gli anticorpi della conservazione”, Welforum.it, 31 agosto.

Marocchi G. (2018b), “La coprogettazione dopo il parere del Consiglio di Stato”, Welforum.it, 10 settembre.

Scalvini F. (2018), “Una nuova stagione. Il Codice del Terzo Settore e le relazioni tra enti del Terzo settore e le pubbliche amministrazioni”, Welfare Oggi, 2/2018, pp. 19-25.

 

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